La cucina

Com’è noto, l’Emilia-Romagna in cucina è regina, e la cucina bolognese è famosa in tutto il mondo. Un autore romagnolo che s’intendeva della buona tavola, Pellegrino Artusi (1820-1911), diceva: “Quando sentite parlare della cucina bolognese fate una riverenza, che se la merita”

La cucina Emiliana e Bolognese sono continuamente rivisitate dai nostri chef.

La nostra sfoglina sarà lieta di mostrarvi i segreti della pasta ripiena fatta in casa: tagliatelle, tortellini, tortelloni di ricotta e lasagne sono primi piatti ormai famosi in tutto il mondo.

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“Ci siamo sistemate molto bene al Pellegrino e siamo molto ben servite. Il pranzo di oggi è consistito in una zuppa bianca coi vermicelli e parmiggiano fine grattuggiato sulla superficie, mezza testa di maiale bolognese mirabilmente essicato e condito, superiore ad ogni altro tipo di carne di maiale mai mangiato in Inghilterra; una frittura molto ricercata, un piatto di pasticcio alla francese, una pollastra tenuta all’ingrasso, una delle migliori che io abbia mai visto, un quarto anteriore di agnello arrosto, un fricandò con piccole navées, spinaci conditi alla maniera francese, tartufi di cavolfiore in fricassea conditi con burro e acciughe, un piatto di mortadella; per dessert la migliore uva bianca che si possa immaginare, bianche pere, le migliori noci e nocciole, di una dimensione e dolcezza fuori del comune.”

Con una simile succulenta successione di piatti, impressionante per gli inappetenti stomaci dei commensali di oggi, una viaggiatrice inglese degli ultimi decenni del Settecento, Anne Miller Riggs, descriveva, in una lettera agli amici londinesi, la saporosa esperienza del suo impatto con la cucina bolognese, dove i piaceri del cibo non conoscevano alcuna pudica limitazione dovuta ad imperativi di colesterolo o di linea, secondo gli schemi di comportamento salutisti delle epoche più recenti e le icone efebiche imposte dalla moda femminile. Ciò che risalta è soprattutto l’insistita sottolineatura sulla qualità dei prodotti presentati; la loro straordinaria varietà lungo l’intero ordito del pranzo, dalla prima zuppa con vermicelli parmiggiano, attraverso carni e verdure diverse, fino all’elogio e conclusivo per le frutta ; nonché l’attitudine tutta particolare del cuoco ad elaborazioni aperte alle migliori suggestioni della gastronomia internazionale, al punto da incontrare il gusto soddisfatto della nostra golosa turista d’oltre Manica.

Del resto è ben noto che Bologna acquisì, fin dai primissimi secoli del II millenio, la duplice e correlata denominazione di dotta e grassa, proprio per la sua non comune capacità di assicurare, in virtù della forza produttiva delle campagne circostanti e della dinamicità dei suoi snodi commerciali, un costante approvvigionamento per le migliaia di studenti e docenti che ne animavano la vita comunitaria.

E così, già i documenti del XII secolo ci parlano di questa rassicurante fertilità del contado da dove, con il vigile e stringente controllo del comune cittadino, giungevano in abbondanza grano, verdura, frutta, olive, uva da vinificazione, erbe medicamentose; mentre il pesce, oggetto di costante consumo, arrivava sia dall’Adriatico, soprattutto attraverso il Ferrarese, sia dalle paludi e dai corsi d’acqua locali a partire dal Reno: su tutto l’anguilla marinata o cotta nel vino ma con essa storioni, gamberi, granchi, cefali, ostriche. E poi la carne bovina, in particolare di importazione romagnola, presente sulle tavole dei bolognesi e non solo dei ceti più ricchi, anche nei periodi di maggiore carenza alimentare; per arrivare poi al maiale subliminato da sempre, per la ricchezza e la varietà dell’offerta gastronomica che si poteva trarre dalla lavorazione delle sue carni fresche o insaccate, come la quintessenza della cucina bolognese: raffigurato in due stele di età augustea insieme al mortaio già allora destinato alla preparazione della mortadella; evocato in una festa civica a lui dedicata, quella della porchetta; elogiato nel corso dei secoli da quanti ebbero ad accostarsi alle nostre tavole per i più svariati motivi.

“Grassa” Dunque, Bologna lo era sempre (e ancora il Baedeker del 1886 così la definisce, aggiungendo ?on vit bien à Bologna?) E grassa? Per l’opulenza sua, o meglio per la fertilità della sue campagne? Come la descrive Michelangelo Gualandi in una guida del 1850: quasi un destino naturale, al quale le sue donne, per un verso, ed i suoi cuochi, sotto un altro aspetto, non potevano non rispondere con la maestria delle loro combinazioni e delle loro cotture.

Una corposità che Guido Piovene, nel suo straordinario Viaggio in Italia dei primi anni Cinquanta, vede sostanziare la stessa fisionomia architettonica e urbana della città, da lui definita, senza mezzi termini, tra le più belle d’Italia e d’Europa. Spiegando che a Bologna “I portici, gli archi, le cupole, tutto fa pensare a una rotondità carnosa.” Lo stesso dialetto, l’accento, sono abbondanti e tondeggianti. Molte bellezze di Bologna sono avviluppate e nascoste nelle sue pieghe prosperose. Il segreto del ripieno in un piatto succulento. La bellezza a Bologna non si pensa, ma si respira, si assorbe, si fa commestibile.

Ma “grassa” anche fin dall’inizio della sua prosperità medievale come s’è detto. Per la vocazione e la facilità ai transiti, alle relazioni commerciali, alle aperture verso mondi diversi, che proprio il suo essere “dotta” per via accademica, rendevano inevitabili e che finivano per proporci una cucina sensibile alle contaminazioni di produzioni e di elaborazioni provenienti da altri luoghi, purché naturalmente in grado di arricchire le nostre tavole distribuite a fine Trecento in 150 osterie e 50 alberghi. Così incontriamo nel medioevo il grande consumo del vino di Creta e della vernaccia dolce; o ci troviamo di fronte, in una delle novelle, bolognesi di Sabbadino degli Arienti, scritte nel Quattrocento ma ambientate a fine Trecento, un inaspettato cuoco tedesco operante nel convento di San Procolo ed incaricato di preparare per l’abate ed i suoi ospiti un paio di catini di lasagne “con un buono caso gratusato”; oppure leggiamo in un ricettario secentesco del famoso cuoco bolognese Bartolomeo Stefani la sua costante ricerca di prodotti, in particolare verdure, provenienti da altre parti d’Italia, mentre la parallela esportazione di tipicità bolognesi riguardava uva, olive (queste più volte magnificate dai viaggiatori stranieri) e finocchi, definiti dall’agronomo Tanara, ancora nel Seicento, “gloria degli agricoltori bolognesi”. Senza dimenticare, da ultimo, di stupirci, ripercorrendo le sontuosità dei banchetti rinascimentali e sei-settecenteschi, ripetuti in Bologna in moltissime occasioni pubbliche, fatti di stupefacenti allegorie dove il cibo, nel suo variopinto comporsi, era anche un pretesto per esprimere significati festevoli, politici, araldici.

Sarà solo, tra ultimo Settecento e l’Ottocento, fino alla codificazione di Pellegrino Artusi nel 1891, che si elaborerà anche nel nostro paese come nel resto d’Europa, una cucina dominata dalla vincente mediatas borghese, con il suo ordine, la sua decorosa ma modesta semplicità, il suo risparmioso ricorso ai prodotti della natura e dei mercati locali; la sua, in definitiva, ricerca di omogeneizzazione tra cucina dei ricchi e quella dei poveri, senza luccichii, ma pure senza sprechi, senza stravaganze elaborative, ma pure senza carenze nutritive, dalla cui eliminazione si sapeva bene sarebbe alla lunga dipeso il sostegno materiale della trasformazione capitalistico-industriale in corso.